Capita spesso che alcuni film acclamati dalla critica che non intercettano il favore del pubblico: perché succede? E quali sono i film che creano questo ampio divario?
La discrepanza tra le aspettative del pubblico e il favore della critica è un tema ricorrente nel dibattito cinematografico, soprattutto quando alcuni film che ottengono grandi successi di critica risultano deludenti o addirittura sgraditi a una larga fetta del pubblico. La contrapposizione tra la visione degli esperti e quella degli spettatori è spesso alimentata da fattori soggettivi, culturali e perfino psicologici, che possono influenzare il giudizio finale su un’opera cinematografica. Quando si parla di film che dividono pubblico e critica, si fa riferimento a pellicole che, pur ricevendo elogi da parte degli addetti ai lavori, suscitano reazioni contrastanti o addirittura negativi tra gli spettatori. Un fenomeno che si manifesta in modo particolarmente evidente durante la stagione dei premi, quando titoli acclamati dai giurati dei festival e dalle riviste specializzate rischiano di risultare incomprensibili o troppo lontani dai gusti mainstream.
Ed è proprio su questa dissonanza che si basa la mia personale riflessione. Se anche tu sei uno di quelli che amano le classifiche, alla fine dell'articolo troverai la mia lista dei film più apprezzati dai critici che, al contrario, io ho detestato. Anzi, di più: secondo me, se vuoi diventare filmmaker, dovresti vederli per comprendere che i premi e i consensi della critica, in fin dei conti, non hanno grande valore e che il cinema è magico proprio perché viene vissuto in modo personale. Curioso di sapere quali film sono entrati nella mia selezione? Continua a leggere.
Le Aspettative del Pubblico vs. la Critica
In primo luogo, è importante riconoscere che la critica cinematografica e il pubblico spesso hanno aspettative molto diverse. I critici tendono a valorizzare la profondità, la tecnica, l'innovazione e l’intenzione artistica, mentre il pubblico può essere più influenzato da fattori come l'intrattenimento immediato, l'identificazione con i personaggi e il ritmo narrativo. Un film che osa sperimentare nuove forme narrative, tecniche visive o temi profondi rischia di alienare uno spettatore più interessato a un'esperienza più convenzionale o prevedibile. Al contrario, un film che punta a soddisfare i gusti popolari e a massimizzare il suo appeal commerciale può risultare povero dal punto di vista critico, seppur riuscendo a conquistare il pubblico grazie alla sua capacità di intrattenere senza troppi sforzi.
Un esempio lampante di questa discrepanza è l’accoglienza di film come The Tree of Life di Terrence Malick o The Master di Paul Thomas Anderson. Entrambi i film hanno ricevuto il plauso universale da parte dei critici per la loro ambizione, le loro tematiche filosofiche e la loro forma narrativa non convenzionale. Tuttavia, per molti spettatori, queste stesse caratteristiche hanno costituito degli ostacoli, impedendo loro di entrare in sintonia con l’opera. I tempi lenti, la struttura frammentata e il rifiuto della narrativa lineare hanno spinto il pubblico a considerare questi film come troppo ardui o, peggio ancora, come pretensiosi. In questi casi, i critici possono interpretare le opere come un invito a riflettere, una sfida estetica, o un tentativo coraggioso di spingersi oltre i limiti tradizionali del cinema. Il pubblico, invece, spesso desidera un'esperienza più immediata, dove il significato non sia nascosto dietro strati complessi di simbolismo o metafore.
Visione dei Filmmakers e Cultura Cinematografica
Non bisogna dimenticare che il divario tra critica e pubblico può essere una lezione importante per chi aspira a diventare un filmmaker. La consapevolezza di come anche i grandi registi possano incorrere in fallimenti, o comunque in scelte che non incontrano il gusto del pubblico, è fondamentale per sviluppare una propria visione artistica. I premi, purtroppo, non sono sempre sinonimo di qualità universale. Un regista che guarda a un film premiato come modello potrebbe trovarsi deluso nel constatare che il suo film, pur soddisfacendo una parte della critica, non riesce a connettersi con il pubblico più ampio. Per un filmmaker emergente, il consiglio potrebbe essere di non temere la dissonanza tra le due "sponde". L’approvazione critica può essere gratificante, ma non dovrebbe mai sopraffare la propria autenticità creativa. Al contempo, la reazione del pubblico è altrettanto importante, perché un film che non riesce a comunicare con la sua audience rischia di passare inosservato, nonostante i premi ricevuti.
È proprio su questo punto che si innesta una riflessione più ampia sui premi cinematografici e la cultura dell'industria del cinema. I riconoscimenti e le valutazioni da parte della critica hanno certamente un peso, ma possono anche essere influenzati da fattori di moda, da dinamiche di marketing o dalle pressioni delle case di produzione. Un film che non segue la "scia" delle convenzioni sociali o narrative spesso viene trascurato dal grande pubblico, anche se potrebbe essere tecnicamente straordinario o in grado di toccare corde profonde. La valutazione di un film, in fondo, rimane soggettiva, e sebbene sia interessante considerare le opinioni degli esperti, la vera misura di un'opera è la sua capacità di emozionare, provocare e stimolare riflessioni. Un film che lascia il segno nella cultura popolare non deve per forza essere apprezzato dalla critica d'élite: la sua influenza e la sua portata possono trascendere la cornice stretta dei premi e delle classifiche. In conclusione, mentre i film che dividono pubblico e critica possono sembrare degli anomali nel panorama cinematografico, spesso rivelano la natura complessa e sfaccettata dell'arte del cinema. L'importante è non dimenticare che dietro ogni produzione ci sono scelte artistiche che meritano rispetto, anche se non sempre riescono a conciliare le aspettative di tutti.
Top Delusioni: Quello che non ho Capito di Licorice Pizza
Iniziamo con la classifica delle delusioni personali. Credo che una buona parte della mia delusione derivi dal fatto che nutro un amore sconfinato per Paul Thomas Anderson – un regista che considero tra i più straordinari della sua generazione. The Master e Il petroliere sono, a mio avviso, tra i film più magistrali mai realizzati, opere che non solo trascendono il cinema, ma si fanno esperienza totale, con una profondità e una maestria senza pari. Tuttavia, Licorice Pizza rappresenta per me una netta inversione di rotta, un passo falso che mi ha lasciato perplesso e indifferente. In un film che si presenta come una dichiarazione d'amore per l'America degli anni '70, non sono riuscito a scorgere nulla di particolarmente significativo, se non una sensazione di stasi e una certa mancanza di ispirazione. Se dovessi definire quest'opera con una sola parola, sarebbe sicuramente "superficialità".
La mia recensione, finisce qui. La trama, in realtà quasi inesistente, si perde tra dialoghi che vorrebbero sembrare profondi o spiritosi, ma che in realtà non sono altro che battute motivazionali da quattro soldi, prive di peso, come se il regista stesso avesse smarrito quella stessa visione unica che aveva reso le sue opere precedenti così potenti e memorabili. Mi è sembrato di assistere a un esercizio di stile vuoto, più che a una vera e propria creazione cinematografica. E sinceramente, non riesco proprio a comprendere il motivo per cui così tanti critici abbiano acclamato questo film, come se fosse una rivelazione. Dove sono finiti quei tratti distintivi che avevano reso Anderson un genio nel mio immaginario? Qui non trovo nulla che possa giustificare tanto entusiasmo, se non una strana e quasi incomprensibile esaltazione di ciò che, almeno per me, è il film più debole della sua carriera.
The Northman, la Delusione Vichinga di Eggers
Ho amato profondamente i due progetti precedenti di Robert Eggers, The Lighthouse e The Witch, due opere straordinarie, eccentriche e ricche di sfumature, che hanno catturato la mia attenzione con la loro audacia e originalità. Questi film, veri e propri esperimenti cinematografici, hanno saputo mescolare atmosfere inquietanti con un'interpretazione visiva che sfida le convenzioni. Tuttavia, nonostante un trailer promozionale impeccabile e le elevate aspettative, il terzo lavoro del cineasta statunitense, The Northman, mi ha lasciato profondamente deluso. Non solo non è riuscito a mantenere lo stesso livello di fascino e complessità, ma è stato addirittura irritante e annoiante. A tratti, mi sembrava di trovarmi davanti a una serie televisiva tedesca da sabato pomeriggio – qualcosa del tipo Vikings (per rimanere in tema) – ma con una messa in scena di boschi, rituali e stranezze che sembrano appartenere a un’altra dimensione, più che a un grande film.
Anche le scene d’azione, che nel mio immaginario avrebbero dovuto essere un punto di forza, non sono riuscite a risollevare la situazione. Per un appassionato di action come me, vedere che anche questo aspetto cruciale fallisce, è stata una vera delusione. Le sequenze di combattimento, anziché coinvolgere e emozionare, risultano piatta e poco ispirata, incapaci di suscitare il brivido che ci si aspetterebbe da un'epopea vichinga. Ma la ciliegina sulla torta è stata il finale, così telefonato e prevedibile fin dal prologo che mi ha fatto sentire come se fossi stato trascinato su un sentiero ben tracciato, senza possibilità di sorprese. Questo, purtroppo, non ha fatto altro che accentuare il mio senso di disillusione. Il risultato finale, tra un racconto incapace di decollare e una narrazione che sembra andare a vuoto, è stato un flop commerciale che, nonostante l’ambizione, era forse inevitabile. La fatica di un film che si era prefissato di essere epico, ma che, purtroppo, è scivolato nell’insignificanza.
Nomadland, una Noia Mortale
Ancora non riesco a spiegarmi come, nel 2021, Nomadland abbia vinto l’Oscar. Forse eravamo tutti talmente intorpiditi e svuotati dall’anno di pandemia che una storia di una donna in viaggio per gli Stati Uniti a bordo del suo furgone ci è sembrata qualcosa di straordinario, un'opera carica di significato e profondità. Ma, personalmente, credo che Nomadland sia uno dei film più soporiferi che abbia mai visto. Lento, vuoto e incapace di emozionarmi, il film sembra fluttuare senza scopo, come un lungo e tedioso viaggio senza una meta chiara. Salvo solo Francis McDormand, che, come sempre, regala una performance straordinaria. È una delle migliori attrici in circolazione, capace di dare vita anche ai personaggi più silenziosi e introversi, e in questo caso non fa eccezione. Ma per il resto, il film mi ha dato la sensazione di essere privo di una vera trama.
Per tutta la durata, ho avuto l’impressione che non stesse succedendo nulla, che ogni scena fosse una mera esplorazione visiva di spazi e paesaggi, ma senza alcun contenuto emotivo o narrativo davvero significativo. E, nella migliore delle ipotesi, se volessi concedere al film una qualche intenzionalità, sarebbe quella di raccontare una storia che semplicemente non va da nessuna parte, come se la sua stessa essenza fosse quella di un viaggio senza fine, ma senza la promessa di un arrivo. Evidentemente, c’è qualcosa in questo acclamato caso cinematografico che non riesco ad afferrare. Mi sfugge quel senso di magnificenza che tanti hanno celebrato, lasciandomi invece con un amaro senso di incomprensione.
La delusione di Pinocchio di Guillermo del Toro
Pinocchio di Guillermo del Toro è, senza dubbio, un film visivamente affascinante e tecnicamente impeccabile, ma, al di là di questi meriti formali, il suo intreccio non funziona nemmeno un po’. È come se fosse un pasticcio di ingredienti, un miscuglio di idee e atmosfere che, messi insieme, non riescono a trovare un equilibrio coerente. La promessa di una rivisitazione creativa del celebre racconto sembrava intrigante, soprattutto per un appassionato di film d'animazione in stop-motion come me (ripenso sempre al corto di Burton, Vincent, un piccolo gioiello). Eppure, nonostante la bellezza e la maestria della produzione, il film finisce per lasciare una sensazione di fiacchezza, come se non riuscisse mai a decollare veramente. Avevo grandi speranze per questa versione di Pinocchio, immaginando una reinterpretazione dell'opera di Collodi arricchita da un tocco più oscuro e sofisticato. Purtroppo, però, quelle aspettative sono state ampiamente deluse dall’inserimento forzato del burattino come strumento di propaganda per il predominio fascista.
Piuttosto che un viaggio emozionante e profondo, il film si trascina tra scene che sembrano più un esercizio stilistico che una vera e propria narrazione. I momenti di tensione o di meraviglia si perdono, soffocati da una trama che a tratti sembra rimanere in superficie, incapace di esplorare davvero le potenzialità emotive della storia. Ciononostante, c'è un aspetto che merita di essere sottolineato e che, per quanto minore, mi ha colpito davvero: l’aspetto di Pinocchio stesso. Con la sua pelle di legno, i lineamenti nodosi e i capelli di corteccia, la sua estetica risulta non solo inquietante, ma anche modernizzata, come se del Toro fosse riuscito a reinventare l'iconico burattino per adattarlo a un'epoca più oscura e conturbante. In questo senso, l'aspetto visivo di Pinocchio è forse l'unico elemento che riesce a elevare il film, donandogli un carattere distintivo. Ma, purtroppo, la forza di questa reinterpretazione visiva non è sufficiente a risollevare un film che, nel complesso, manca di quella scintilla che ci si aspetterebbe da un regista del calibro di del Toro.
The Batman: Pietà per i Fan più Navigati
Chi mi conosce sa che per Batman nutro una vera e propria venerazione: sono un lettore di fumetti, un collezionista di memorabilia, e uno spettatore appassionato di qualsiasi cosa sia stata mai realizzata su di lui, che sia in TV o al cinema. Con i film di Burton sono cresciuto, con quelli di Schumacher ho riso senza vergogna, e con la trilogia di Nolan ho pianto di gioia. Eppure, The Batman è stato, per me, una tortura che sinceramente non meritavo. Perché? La risposta è semplice: troppo di ciò che ci è stato presentato era già stato visto e rivisitato. La relazione tra Bruce e Alfred, il trauma paterno, gli enigmi da "scuola elementare"... tutto ciò non rappresentava più un elemento di novità, ma una ripetizione di temi che non avevano nulla di innovativo. E seppure il film cercasse di differenziarsi, l’introduzione di elementi come il legame con Selina Kyle o la versione più depressa e angosciata di Batman non sono riusciti a dare quella ventata di freschezza che il personaggio meritava.
A parte qualche buona idea, come l'interpretazione dell'Enigmista da parte di Paul Dano, che trasforma un personaggio altrimenti intelligente in un folle travestito da genio, il resto del film sembra un'inutile espansione di un universo che avrebbe potuto rimanere più concentrato. E poi c'è il Joker: una presenza che non solo è meno interessante di ogni altra versione precedente, ma sembra quasi un’aggiunta forzata, senza reale impatto. Persino il Pinguino, interpretato dall'irriconoscibile Colin Farrell, non è riuscito a regalarmi quelle emozioni caotiche e divertenti che mi aspettavo (per fortuna che ci ha pensato la serie, The Penguin, ad aggiustare il tiro), rimanendo un personaggio che poteva invece portare più brio, come ci avevano abituato i Batman degli anni 2000.
Il Sopravvalutato Don’t Look Up
Un film che è piaciuto a tutti e che ancora oggi non riesco a comprendere nel suo pieno. Senza dubbio, l'intento di presentare una commedia surreale come un dramedy profondo è stato realizzato alla perfezione: a un certo punto, sembrava che Don’t Look Up fosse il miglior film mai realizzato nella storia del cinema. Ma non lo è: è semplicemente una commedia che si sente tremendamente intelligente — e che fa sentire chi la guarda particolarmente furbo — ma che, in realtà, non scava mai veramente nel cuore dei temi che intende trattare. Prendiamo ad esempio l’intera sequenza con Ariana Grande: una parodia della nostra cultura, certo, ma che alla fine non aggiunge nulla di nuovo alla discussione. È solo un altro espediente visivo che si prende troppo sul serio, senza avere la capacità di provocare una riflessione autentica.
Ecco, Don’t Look Up è uno di quei film che diventa virale su Netflix, conquista l'attenzione per qualche settimana, e poi finisce nel dimenticatoio. Una commedia che si veste da film "importante", ma che non riesce a mantenere le promesse. Di Adam McKay, sinceramente, ho preferito La grande scommessa, che pur trattando argomenti complessi, aveva almeno un ritmo irresistibile, un'immediatezza che Don’t Look Up non ha mai raggiunto. Quest'ultimo sembra voler dire qualcosa di fondamentale sulla nostra società e la crisi climatica, ma non riesce a tradurre questa urgenza in una narrazione solida, restando una bolla di sapone che alla fine scoppia senza lasciare traccia.
Sto Pensando di Finirla Qui: Cosa sto Guardando?
L’inizio di Sto pensando di finirla qui è sicuramente promettente, e le performance degli attori sono assolutamente stellari. Tuttavia, più il film procede, più mi rendo conto che, alla fine, la pellicola perde il suo slancio e si trasforma in un pastone incoerente, privo di una direzione chiara. Charlie Kaufman, un genio indiscusso che ha scritto e diretto opere straordinarie come Se mi lasci ti cancello, Il ladro di orchidee ed Essere John Malkovich, qui sembra essersi perso in un labirinto di idee troppo contorte e senza filo conduttore. Piuttosto che catturare l’attenzione dello spettatore con la consueta originalità, Sto pensando di finirla qui finisce per confondere e frustrare. Alla fine del film, ci si ritrova a fissare lo schermo con occhi sgranati, cercando di dare un senso a ciò che si è appena visto, intenti a decifrare i misteri che si nascondono dietro la trama.
Non so se sono stato l’unico, ma giuro che non mi capitava da tempo di guardare una pellicola domandandomi per tutto il suo svolgimento cosa stesse succedendo sullo schermo. È come se il film fosse diventato un esercizio di puro intellettualismo, con troppe metafore, rimandi e citazioni che, più che arricchire la narrazione, la sovrastano, rendendola quasi incomprensibile. Il rischio di voler essere troppo sofisticati e autoreferenziali, in effetti, diventa il tallone d’Achille del film. Si finisce per chiedersi se Kaufman non abbia volutamente creato un’opera troppo citazionista e difficile da decifrare, lasciando l’emotività e la coesione narrativa in secondo piano. La sensazione finale è quella di un lavoro che, pur avendo tutte le premesse per essere un capolavoro, finisce per smarrirsi nel suo stesso intricato processo creativo.
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